L’UOMO CHE SCONFISSE FEDERICO BARBAROSSA

E' da poco uscito un testo interessante di Paolo Grillo sulla battaglia di Legnano del 1176.
In occasione della Va edizione della rievocazione di tale battaglia, il 15 e 16 maggio prossimi al castello di Legnano, riportiamo alcune pagine "illuminanti" sugli accadimenti di quel tempo (e sulle vicende successive).....

Cap 7

Dalle pagine precedenti è emersa una battaglia di Legnano un po’ diversa da quella tradizionalmente raccontata. Una battaglia forse meno disperatamente eroica, ma più razionalmente condotta, esito di due coerenti visioni strategiche da parte dell’imperatore e da parte dei comuni e preparata dai dirigenti di questi ultimi con cura e abilità. In questa narrazione si sarà notata l’assenza di alcuni dei protagonisti che, soprattutto nell’immaginario di stampo risorgimentale, avevano dominato la narrazione della vicenda: Alberto da Giussano e la sua Compagnia della Morte. La mancanza non è casuale dato che, in realtà, la ricerca storica ha da tempo dimostrato che né l’uno né l’altra sono mai esistiti.


1. Un’invenzione trecentesca

L’iconografia risorgimentale e le narrazioni più diffuse della battaglia di Legnano insistono sul ruolo che nell’esercito milanese avrebbero avuto due unità particolari, una di 300 combattenti appiedati incaricati della guardia del carroccio e, soprattutto, la cosiddetta Compagnia della Morte, un gruppo di 900 cavalieri così denominati perché avrebbero giurato di battersi fino all’ultimo senza arrendersi. Nessuna fonte contemporanea, però, riporta alcuna notizia in proposito e l’unico autore a farne cenno è un cronista domenicano, di oltre 150 anni posteriore ai fatti, di nome Galvano Fiamma.
Galvano Fiamma è la croce e la delizia di chi tenta di ricostruire la storia di Milano in epoca comunale, poiché nelle sue numerose e ridondanti opere ha raccolto fatti e leggende di ogni genere, alcuni autentici e di grande interesse, altri palesemente inventati o grossolanamente fraintesi. Nel nostro caso, egli racconta che nel 1176 “fu creata in Milano una società che fu detta società dei cavalieri della morte: furono novecento cavalieri scelti su grandi destrieri e giurarono di opporsi in ogni luogo all’imperatore, pronti a combattere con lui sul campo senza mai fuggire o volgere le terga. Fu subito deciso che chi fosse fuggito sarebbe stato ucciso con una scure. Giurarono inoltre che non avrebbero consentito nessun tradimento della città e a ognuno di loro fu dato un anello d’oro e furono ricevuti al soldo della comunità e fu loro capitano Alberto da Giussano, che portava il vessillo del comune”.
La mancanza di ogni riscontro nelle fonti del XII secolo, le forti influenze della letteratura cavalleresca (nei particolari degli anelli d’oro e dell’uccisione dei fuggitivi) e il carattere apertamente apologetico della narrazione inducono a ritenere che in queste righe il frate abbia lavorato di fantasia, proiettando sul passato organizzazioni militari caratteristiche della sua epoca, e che nessuna Compagnia della Morte facesse parte delle milizie milanesi che marciarono verso Legnano. Si noti, peraltro, che neppure il Fiamma fa cenno al ruolo in battaglia della Compagnia; anzi, per lui lo scontro finì per merito di tre colombe, levatesi dall’altare dei martiri Sisinio, Martirio e Alessandro, nella basilica di San Sempliciano, e andate a posarsi sul gonfalone del carroccio, alla cui vista Federico decise di abbandonare il campo, vedendovi un segno del favore che Dio riservava alle forze dei comuni.
Altrettanto e più famoso della Compagnia della Morte è il suo leggendario comandante, Alberto da Giussano. Un personaggio così celebre ha però avuto un destino a prima vista molto strano: chi prenda fra le mani l’Enciclopedia Italiana o, ancora di più, il monumentale Dizionario Biografico degli Italiani, che intende presentare in brevi tratti la vita di tutti gli italiani per qualche motivo celebri, troverà che ad Alberto non è stata riservata alcuna voce. Pure il famoso monumento eretto a Legnano, che molti pensano raffigurare il comandante della Lega, è in realtà genericamente intitolato al Guerriero di Legnano. Tale assenza, però, non è per nulla strana, poiché, come dimostrano i documenti dell’epoca, con ogni probabilità Alberto da Giussano non è mai esistito.
Il primo autore a parlare di lui, infatti, è ancora una volta Galvano Fiamma, di cui abbiamo già discusso la scarsa attendibilità a proposito della Compagnia della Morte. Neppure riguardo ad Alberto da Giussano, dunque, le cronache coeve forniscono informazioni. Alcuni studiosi si sono cimentati nello spoglio sistematico di tutta la sopravvissuta documentazione privata relativa al XII secolo alla ricerca di Alberto, ma, benché sopravviva un buon numero di atti che riguardano la famiglia da Giussano, nessun personaggio di questo nome è emerso dalla ricerca.
Anche in questo caso, dunque, si può affermare con ragionevole certezza che Galvano Fiamma ha tratto la notizia da una fonte poco affidabile o che, più probabilmente, ha dato libero corso alla sua fantasia.
Ci si può chiedere perché il frate domenicano si sia lanciato in questa invenzione. La risposta, probabilmente, risiede nel fatto che dalle preesistenti narrazioni della battaglia emergeva uno squilibrio molto evidente: era il Barbarossa, nelle pagine dei contemporanei, a dare ordini, a guidare le truppe e a disporre ogni mossa del suo esercito. Dal lato comunale, invece, non spiccava alcun personaggio di rilievo. Per descrivere le operazioni sono utilizzati soltanto nomi collettivi: i protagonisti assoluti della battaglia erano i “lombardi” (Longobardi), tutt’al più articolati in milanesi, veronesi e bresciani o in fanti e cavalieri. Se da un lato, a capo dell’esercito imperiale spiccano il volto, le azioni e lo stendardo di Federico Barbarossa, dall’altro questo ruolo è ricoperto non da un uomo, ma dal carroccio, ossia dalla personificazione della cittadinanza intera. Questa contrapposizione aveva un forte valore simbolico, quasi che nelle parole dei narratori alla volontà di un singolo, l’imperatore, si opponesse l’operare collettivo degli abitanti delle città italiane.
Col passare del tempo, con l’evolvere della situazione politica e con il mutare delle mode culturali, questa voluta anonimia delle forze cittadine non fu più compresa. I letterati italiani sentivano sempre più l’influenza delle opere francesi – cronache, romanzi arturiani leggendarie chansons de geste – le quali mettevano in evidenza il ruolo di alcuni grandi campioni a cavallo, protagonisti assoluti degli scontri e dei duelli, fossero essi immaginari, quali Rolando o Lancillotto, o reali, come Filippo Augusto o Riccardo Cuor di leone. Tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, anche in Italia alla guida delle città si affermarono singoli personaggi di rilievo, i “signori”, che pian piano si sovrapposero agli organismi di governo collettivi, mentre il carroccio cessò di essere utilizzato e venne sostituito da stendardi, spesso decorati con le armi dei nuovi leader politici. Si giunse così, verso il 1340, all’invenzione di un protagonista indigeno da contrapporre all’imperatore e nacque allora dalla creativa penna del cronista domenicano, la figura del condottiero Alberto da Giussano, come effettivo contraltare del Barbarossa.
Nei secoli successivi, un gran numero di studiosi riprese le parole del Fiamma e, col passare del tempo, la figura di Alberto si caricò di connotati leggendari, fino a divenire quella di un guerriero erculeo, in grado di scagliare i cavalieri imperiali con la sola forza delle braccia. Nonostante i dubbi dei più rigorosi storici del Settecento, egli rimase tra i protagonisti della battaglia e duranti il Risorgimento, ovviamente, vestì i panni di un eroe nazionale ante litteram, pronto a battersi con valore contro gli invasori tedeschi per il bene della Patria, mentre galanti romanzieri gli intesserono attorno nobili vicende d’amore con caste fanciulle aristocratiche. Sul finire dell’Ottocento, compiuta l’Unità e attenuatesi le passioni, gli studiosi poterono accostarsi con minor reverenza ai resoconti della battaglia, ridimensionando il ruolo del fantomatico comandante e facendo filtrare i primi dubbi sulla sua reale esistenza. Infine, un ricercatore milanese, Rinaldo Beretta, nel 1914 si mise ad analizzare con cura tutta la documentazione disponibile e concluse, inequivocabilmente, che il da Giussano era un’invenzione del Fiamma o di qualche autore a lui immediatamente precedente. Dopo il Beretta, nessuno storico ha più riproposto la figura di Alberto, che conserva invece una sua vitalità nella produzione narrativa e romanzesca.


2. Alberto da Giussano o Guido da Landriano?

Una volta eliminata la figura fittizia di Alberto da Giussano, la domanda su chi guidasse le forze comunali a Legnano sembra destinata a rimanere senza risposta. Anzi, alcuni la giudicano talmente priva di interesse, ritenendo che l’episodio sia stato il frutto di un incontro casuale fra i due eserciti e che l’assenza del nome di un comandante rifletta semplicemente il fatto che gli eserciti cittadini erano male o per niente comandati. In realtà, però, la battaglia di Legnano fu ben preparata e ben condotta, tanto da suscitare una legittima curiosità sull’identità dell’uomo o degli uomini che seppero con indubbia abilità muovere e schierare l’esercito della Lega. Dato che le cronache ostinatamente tacciono, possiamo provare a rivolgere qualche domanda ai documenti dell’epoca che, pur senza dare risposte definitive, xi forniscono una serie di indizi, utili a tentare un’identificazione.

Nel gennaio del 1176 si svolse a Piacenza una riunione della Lega, durante la quale furono prese le misure per affrontare un possibile attacco imperiale contro Alessandria. Agli accordi militari seguì il rinnovo del giuramento dei rettori, sottoscritto dai rappresentanti delle diverse città. Per Milano era console e rettore Guido da Landriano, un personaggio di cui vale la pena ripercorrere le vicende, poiché è possibile che, vista la sua carica, sia stato proprio lui, quattro mesi dopo, a capeggiare le forze comunali a Legnano.
Nella sua duplice natura di rettore della Lega e di console cittadino, egli era in effetti il candidato naturale alla guida di un esercito composto da truppe appartenenti a tutta l’alleanza, ma del quale i milanesi rappresentavano la parte preponderante. Il da Landriano, come vedremo, oltre a essere un cavaliere esperto, fu uno dei grandi animatori della lotta antimperiale e apparteneva a una famiglia da tempo legata alla città e dotata di una spiccata vocazione militare, tutte caratteristiche che rendono più che plausibile la sua collocazione al comando delle forze urbane.
I da Landriano erano una stirpe di nobili che portavano il titolo di “capitanei”, in quanto dipendenti feudali dell’arcivescovo di Milano. Sebbene avessero beni e diritti signorili nelle campagne, soprattutto intorno al villaggio di Landriano, nella parte sud-occidentale del contado milanese, essi risiedevano in città e partecipavano intensamente alla vita comunale. Un Umberto da Landriano è ricordato nel 1119 in uno dei primi elenchi disponibili dei maggiorenti che governano la città e nel 1155 troviamo un Amizio da Landriano fra i consoli che amministrano la giustizia. Altri esponenti della famiglia avevano intrapreso la carriera ecclesiastica, tanto che alla fine dell’ XI secolo un altro Guido da Landriano divenne vescovo di Bergamo, mentre a Milano si trovano diversi da Landriano nel capitolo della cattedrale o nei principali monasteri cittadini.
Le prime notizie sul console Guido risalgono al 15 luglio 1159, quando nei dintorni di Siziano si svolge uno scontro dall’esito a lungo incerto, che vide coinvolte le forze milanesi, pavesi e imperiali. Alla fine, gli ambrosiani, caduti in un agguato teso loro dagli avversari, subirono una pesante sconfitta, sicché un gran numero di cavalieri venne catturato. Fra questi, il cronista lodigiano Ottone Morena ricorda i nomi dei fratelli Guido ed Enrico da Landriano1. Posti in catene, i prigionieri vennero dapprima portati a Lodi, poi tradotti in carcere a Pavia, città che stava diventando la base operativa dell’esercito federiciano contro Milano. Per alcuni mesi rimasero nelle prigioni pavesi. Venuto l’autunno, i due fratelli e molti altri furono fatti uscire dal carcere, ma non per essere liberati. Sotto buona scorta, infatti, vennero inviati all’accampamento del Barbarossa, posto davanti a Crema.
Da tempo, Federico assediava inutilmente il borgo di Crema, difeso dai suoi abitanti e da una guarnigione di rinforzi milanesi. Per avere ragione dell’ostinata resistenza, l’imperatore aveva ordinato la costruzione di una grande torre mobile e di un ariete protetto da un “gatto”, che intendeva avvicinare alle mura per darvi l’assalto finale. A tal fine, aveva fatto colmare una parte dei fossati, facendovi versare terra da migliaia di carri. I cremaschi, però, tenaci e combattivi, disponevano a loro volta di valide macchine da guerra e avevano già dato prova della loro determinazione poche settimane prima danneggiando col fuoco un grande mangano che il Barbarossa aveva fatto costruire per abbattere le fortificazioni. Per proteggersi dal tiro nemico, Federico fece prelevare i prigionieri milanesi e cremaschi custoditi a Pavia e li fece legare alla torre quali scudi umani. I difensori, però, decisero di ignorare il ricatto e nel momento dell’attacco bersagliarono la costruzione con una grande quantità di pietre, danneggiandola e impedendole di avanzare. L’assalto fu cos’ sventato, ma fra le macerie della macchina d’assedio rimasero i cadaveri di nove ostaggi, fra cui quello di Enrico da Landriano2.
La resa di Milano, nel marzo 1162, consentì la liberazione dei prigionieri di guerra che poterono raggiungere i loro compatrioti nell’esilio suburbano. Poco o nulla sappiamo della vita pubblica dei milanesi durante il periodo della distruzione della città. Il fatto che si siano raccolti nei diversi borghi rispettando la preesistente distinzione per porte indica comunque che essi cercarono di salvaguardare la rete dei legami di vicinato e, con essa, la possibilità di agire, anche politicamente, come una collettività organizzata. Le cronache riportano notizia delle ripetute nomine di ambasciatori e di rappresentanti dei cittadini esuli, al fine di protestare davanti ai governatori imperiali per il trattamento inflitto e per l’eccessivo peso fiscale: anch’esse sono testimonianza dell’esistenza di qualche forma di vita comunitaria. Alcuni fra i cittadini scelsero la via della collaborazione, ponendosi agli ordini dei rappresentanti di Federico: è il caso di Giordano Scaccabarozzi, ricordato dal primo Anonimo Milanese come “pessimo traditore”. Anche i monaci di Sant’Ambrogio optarono per l’imperatore e poterono continuare a risiedere presso la loro chiesa, risparmiata dalla distruzione; da essa furono invece cacciati i canonici che, da bravi cattolici, erano rimasti fedeli al papa.
Molti di più furono infatti i milanesi che, raccogliendosi intorno all’arcivescovo Galdino, si opposero all’idea di accettare il governo federiciano e conservarono la speranza di liberarsi dall’oppressione e di rientrare in città. Non è difficile immaginare fra costoro i superstiti della prigionia pavese e della traumatizzante esperienza cremasca, come Nero Grasso, di cui nei capitoli precedenti abbiamo già potuto misurare l’impegno antimperiale nel ruolo di podestà di Parma, o come il nostro Guido da Landriano, nel quale il ricordo della misera sorte riservata al fratello doveva bruciare ancora.
Quando nel marzo del 1167 i messi di Bergamo e di Cremona giunsero nei villaggi abitati dai profughi per offrire loro la possibilità di rientrare in città, furono proprio i membri di questo gruppo di oppositori ad assumere la guida dei cittadini e a gestire i rapporti con i nuovi alleati. Il loro ruolo emerge con evidenza nei primi atti pubblici ai quali partecipò il ricostituito comune milanese, dopo il rientro in città. Il 22 maggio 1167, a Lodi, le città di Milano, Cremona, Brescia e Bergamo giurarono patti di alleanza con la stessa Lodi. Fra gli esponenti del governo ambrosiano che vi si recarono per le trattative si trovava un da Landriano, Uberto, mentre Guido fu tra i membri del consiglio cittadino che il 31 dicembre successivo, in una città ancora in gran parte in macerie, approvarono il trattato. Guido fu posto in elenco quale secondo dei consiglieri, in una posizione che denota un indubbio prestigio: lo precedeva solo Maragaglia di Alliate, già console di Milano nel 1155 e altro protagonista della guerra contro il Barbarossa, dato che quell’anno guidò una spedizione contro i pavesi nei dintorni di Tortona.
Dopo la rinascita delle città e la formazione della Lega, Uberto e Guido da Landriano, dei quali purtroppo ignoriamo il legame esatto di parentela, furono fra i protagonisti della vita politica e dell’opposizione all’imperatore, tanto che nel 1175 Uberto ebbe la guida del contingente milanese nella spedizione di Montebello e in tal veste prese poi parte alle trattative svoltesi sul campo, mentre, come si è detto, Guido fu console e rettore della Lega nell’anno successivo.
Affidare il comando dell’esercito della Lega che combatté a Legnano a un personaggio dotato di esperienza militare e di provata fedeltà antimperiale come Guido sarebbe stata dunque una scelta ovvia, visto che egli già ricopriva un importante incarico istituzionale in città e che fra i compiti dei consoli vi era anche quello di guidare le spedizioni militari. Ancora di più, però, sono le tappe della successiva carriera di Guido a rafforzare l’idea che egli ebbe un ruolo decisivo nella lotta contro il Barbarossa. Può essere infatti una dimostrazione del prestigio che egli acquisì in quell’occasione il fatto che nel 1179 gli fu attribuito l’importante incarico di Podestà di Ferrara, vero e proprio avamposto della Lega in seno alla Romagna, una regione di stretta fedeltà imperiale.
Ma l’indizio più significativo di un possibile ruolo di primissimo piano ricoperto da Guido a Legnano è fornito dal trattato della pece di Costanza, il privilegio imperiale che nel 1183 mise fine al conflitto tra Federico e le città. Il 30 aprile 1183, a Piacenza, i comuni della Lega giurarono di mantenere la pace che stava per essere conclusa davanti ai messi imperiali, il vescovo di Asti e il marchese Enrico Guercio. L’elenco dei rappresentanti cittadini fu aperto proprio da Guido: “il signor Guido da Landriano giurò di conservare sempre salda la pace, come è contenuta nel testo della pace e di attenervisi e similmente giurarono Oprando da Martinengo di Brescia, console e rettore” e tutti gli altri rappresentanti delle città di Piacenza, Bergamo, Modena, Reggio, Mantova, Lodi, Verona, Treviso, Vicenza, Bologna, Novara, Vercelli e della pieve di Gravedona. Il 25 giugno successivo, a Costanza, Federico Barbarossa in persona emanò il privilegio che sanciva la riconciliazione fra lui e i comuni. Al termine della lettura del lungo atto, ancora una volta i messi delle città sfilarono e pronunciarono il giuramento di rispettare l’accordo e, come due mesi prima, la fila di ben 63 ambasciatori delle diverse città fu condotta da Guido da Landriano. Passarono alle spalle di Guido, nello stesso gruppo dei messi milanesi, personaggi di famiglia assai più elevata o dalla carriera politica molto più significativa: la spiegazione dunque più probabile del ruolo di assoluta preminenza che gli fu attribuito potrebbe risiedere nel fatto che si sapesse che egli era stato il protagonista della battaglia che aveva deciso le sorti del conflitto con il Barbarossa.
Se questa ipotesi fosse plausibile, anzi, ci troveremmo di fronte a un’esemplare mossa propagandistica delle città italiane. Come e ancor più di oggi, nel Medioevo la lotta politica si svolgeva anche, e forse soprattutto, a colpi di simboli e di rituali, tramite i quali si tentava di mascherare le sconfitte o di rimarcare le vittorie. Federico, in tale prospettiva, diede alla pace di Costanza non la forma di un trattato bilaterale, che l’avrebbe posto sullo stesso piano dei centri ribelli, ma quella di un diploma, emanato dal sovrano di sua spontanea volontà. In tal modo, i diritti che i comuni si erano conquistati sul campo venivano presentati come il frutto di una benevola concessione imperiale.
Le città, pur accettando di ottenere la pace in forma di privilegio, avrebbero organizzato a loro volta una brillante contromossa, facendo aprire la sfilata dei loro rappresentanti al trionfatore di Legnano, in maniera da ribadire chi fosse stato il vero vincitore.
Benché il Barbarossa avesse tentato di salvare le apparenze, la cerimonia di Costanza fu un trionfo per i comuni italiani tutti e anche per Guido che, in particolare, poté ben togliersi la soddisfazione di considerare vendicato il fratello, così barbaramente ucciso un quarto di secolo prima. Il seguito, Guido tornò alla tranquillità della vita civile. Sappiamo che possedeva terre nella regione meridionale del Milanese, nella campagna di Torrevecchia e che nel 1193, con altri maggiorenti urbani, fu amministratore dell’eredità di una vedova che decise di lasciare il suo patrimonio ai poveri.
La sua carriera politica, invece, si chiuse nel 1190, con un incarico di grande prestigio. Egli fu infatti nominato primo podestà di Asti. Qui lasciò un ricordo estremamente positivo, tanto che, quasi un secolo più tardi, il cronista Ogerio Alfieri ne parlava come di un uomo che “fu buono e onesto e fece molte cose buone per il comune astigiano”. Con queste parole, ci sembra di poterci a nostra volta congedare dal personaggio che probabilmente guidò le forze dei comuni italiani nella loro battaglia più importante, ma di cui non si era conservata esplicita memoria perché per i suoi contemporanei ciò che soprattutto importava era ribadire che il trionfo sul Barbarossa non era stata la vittoria di un singolo, ma di tutta la collettività dei cittadini d’Italia.



Note:

1. Federico Barbarossa e i Lombardi, Comuni ed Imperatore nelle cronache contemporanee, a cura di F. Cardini, G. Andenna, P. Ariatta, Europìa 1998, pag. 72
2. ibid. pag. 77

tratto da Paolo Grilllo, Legnano 1176. Una battaglia per la libertà, cap. 7, Edizioni Laterza, febbraio 2010